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Maurizio Bascià - Reggio Calabria - fraz. Gallico Marina

            Nel 1957 (mi sembra quasi di parlare dell’era dei dinosauri) ero un ragazzino di 12 anni e vivevo a Rossano, un tranquillo paese sulle colline calabresi affacciato sul mare Jonio, dove mio padre, dottore in Agraria, dirigeva l’ufficio del comprensorio jonico dell’O.V.S. (Opera Valorizzazione Sila) l’ente di sviluppo agricolo al quale era stato affidato il compito di gestire la riforma fondiaria, secondo quanto voluto dalla legge della Riforma Agraria del 1950.       

Dall’arcivescovo dell’Arcidiocesi di Rossano e Cariati, monsignor Giovanni Rizzo, che aveva un rapporto di stima reciproca e di rispettosa contrapposizione ideologica con mio padre, uomo dalle idee irresolubilmente laiche, avevo ricevuto in regalo alcuni meravigliosi libri illustrati, editi sul finire degli anni ‘30 e l’inizio degli anni ‘40 del secolo scorso dalla Casa Editrice “Cultura Religiosa Popolare” di Viterbo.

Probabilmente quel regalo rappresentava una specie di “trattato di pace e di non belligeranza” tra mio padre e l’arcivescovo, ma per quel ragazzino affamato di conoscenze che ero io, quei libri furono soltanto un dono graditissimo.

I volumi, all’incirca di un centinaio di pagine ciascuno, avevano un formato di 28x21 centimetri, erano illustrati dai fratelli Giovanbattista e Fausto Conti, e il contenuto era curato dal sacerdote Alceste Grandori. Due di essi erano un compendio della Storia Sacra, un altro, dal titolo “Dalle creature a Dio”, era un libro di contenuto naturalistico che spaziava dal mondo degli insetti al mondo sottomarino e l’ultimo, quello che più di tutti mi appassionò, si intitolava “I Cieli narrano la gloria di Dio” un libro che, nelle intenzioni del sacerdote sopra citato, doveva indurre il lettore a riflettere che l’astronomia “...è la storia del passato, del presente, dell’avvenire, che si spinge fino all’Eternità.”

            Quel caro, vecchio, libro del 1940, con le sue ingenue illustrazioni in bianco e nero, mi fece scoprire perché la Luna ci mostra sempre la stessa faccia, mi fece vedere le prime fantasiose mappe di Marte disegnate da Giovanni Schiaparelli, mi costrinse a confrontare le nostre dimensioni con quelle della nostra stella, il Sole, e quelle del Sole con la Via Lattea, la nostra Galassia, ma addirittura venni a scoprire che la Via Lattea era solo una delle innumerevoli, forse infinite, galassie che formano l’Universo: con quel libro mi ero affacciato sull’infinito e fu così che m’innamorai dell’astronomia. Guardare il cielo stellato era un incanto al quale era difficile sottrarsi, anche perché sognavo, come la stragrande maggioranza dei ragazzi di quell’epoca, di poter vedere tra le stelle qualcosa di inaspettato e di meraviglioso, magari uno di quei “dischi volanti” che in quegli anni occupavano molte pagine dei giornali con i loro presunti avvistamenti.

E qualcosa di inaspettato e meraviglioso, finalmente, lo vidi anche io, ma non era un oggetto alieno, bensì qualcosa di cui avevo solo sentito parlare: una cometa.

            In quegli anni, pur vivendo a Rossano, dal momento che la mia famiglia era di origine pugliese, per le vacanze tornavamo spesso in Puglia, a Trani, la città in cui ero nato e nella quale vivevano i miei nonni materni e le sorelle di mia madre, con le rispettive famiglie. Di solito, a causa del lavoro di mio padre, partivamo per Trani ai primi di agosto: di buon mattino mio padre imbarcava mia madre, me, la mia sorellina e qualche valigia su una FIAT 1100 B (un’automobile col muso allungato e la ruota di scorta sistemata in vista nella parte posteriore appena sotto il lunotto) e poi, con un bel rombo del motore, si partiva. La nostra macchina, di un indefinito colore tra il senape e il verde chiaro, pur essendo stata acquistata di seconda mano, reggeva bene i suoi bravi 100-110 km/h, tuttavia, in assenza di autostrade, che sarebbero arrivate molti anni dopo, per giungere a destinazione ci voleva un bel numero di ore, ma ne valeva la pena, perché già di per sé il viaggio era una vacanza. Per prima cosa c’erano le soste: la prima, quella più attesa dopo un paio d’ore, era quella per una pagnotta con la mortadella (mio padre non ha mai usato la parola “panino”, forse non riempiva la bocca e l’immaginazione come la parola “pagnotta”), poi c’era la sosta per fare benzina e quella per le soste “tecniche”, quelle cioè dovute ad esigenze naturali che non è il caso di elencare. Ma poi per ogni montagna, paese, fiume, bosco che si incontrava durante il viaggio, c’era sempre qualche storia, leggenda, evento o aneddoto che ci veniva raccontato da mio padre o da mia madre. E a Trani, finalmente, ci aspettava il mare, quel mare cristallino, fresco e trasparente quale era quello del “Molo San Nicola”, una diga foranea comunemente chiamata “il braccio”, che sembrava essere quasi un pontile di attracco per la Cattedrale Romanica poco distante: in quell’acqua limpida era possibile trovare cozze patelle e ricci di mare che ancora non conoscevano la parola “inquinamento”.

            Ma, come è destino di tutte le vicende del mondo, anche le vacanze finiscono e, passato il ferragosto, si doveva tornare a casa, a Rossano. Per consuetudine, nel viaggio di ritorno, mio padre preferiva partire più o meno a pomeriggio inoltrato e viaggiare all’imbrunire e di notte: questo per evitare la calura dei giorni agostani e anche per permettere a me e a mia sorella di addormentarci per la maggior parte del viaggio e non avvertire la nostalgia del distacco dai nonni e dai parenti, zii e cugine.

            Quell’anno, il 1957 appunto, ripartimmo quindi da Trani intorno alle sei del pomeriggio e, regolarmente, forse un’ora dopo, io e mia sorella, cullati dal dondolio della macchina e dalla monotona ninna-nanna cantata dal motore e dalle ruote sull’asfalto, già dormivamo sul sedile posteriore. A un certo punto mi svegliai perché ci eravamo fermati in aperta campagna, una zona collinare forse dopo Gioia del Colle, per una di quelle soste “tecniche” già accennate prima.

Era quasi sera. Devo precisare che all’epoca non era ancora entrata in vigore l’ora legale, ma si seguiva l’ora solare, per cui il cielo si faceva scuro abbastanza presto. La strada nazionale era completamente deserta, niente automobili o altri mezzi di trasporto, nel crepuscolo della sera prendeva forma pian piano solo il magnifico incanto del cielo stellato. Sceso dalla macchina, mi venne spontaneo guardare in alto e vidi, quasi incombente sull’orizzonte dove sembrava che la strada finisse, un punto luminoso, molto luminoso, che dietro di sé aveva una scia di luce che si allargava in miliardi e miliardi di altri minuscoli puntini. Capii subito, per averne visto illustrazioni simili sui libri, che si trattava di una cometa, una bellissima cometa, la mia prima cometa.

– Papà, papà! – gridai emozionato – Hai visto? C’è una cometa!

– Sì – mi rispose lui – anche per questo mi sono fermato: volevo che tu la vedessi. Hai visto come si vede bene sullo sfondo delle stelle? Chissà per quanti anni quella cometa ha viaggiato nello spazio per farsi adesso vedere da noi in tutto il suo splendore! Guardala bene, sono sicuro che te ne ricorderai a lungo.

Sì, papà, non ti sbagliavi.

Dopo di allora ho visto altre comete, ho visto le immagini spettacolari trasmesse dalle sonde spaziali inviate ad esplorarle da vicino, alcune di quelle sonde sono persino riuscite a posarsi sulla superficie di quei corpi celesti… Tutto fantastico, bello, bellissimo, ma niente neanche lontanamente comparabile con l’incontro con quella cometa. Adesso so che essa ha anche avuto un nome, C/1957 P1 (MRKOS), ma per me quella è, e rimane, solo la mia cometa, la mia prima cometa e il suo ricordo è indissolubilmente legato a quella bellissima notte sul finire dell’estate quando con papà, mamma e mia sorella, tutti col naso all’insù, restammo incantati a guardare quella meraviglia che, alta nel cielo, splendeva tutta per noi, solo per noi.