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Gabriella Cinti - Jesi, An

-I-

 

Il governo del due

tra quark danzanti e inusitati

a celebrare il primo moto,

per onde, della materia.

 

Ne immagino un respiro oscillante

e vibrare per rimbalzi il coraggio dell’origine,

euforia delle cellule nell’urto primario:

 

c’è sempre un bacio all’inizio della vita.

 

Dei miei, solo uno, fossile

in conchiglia di memoria,

frammenti stellari in fuga

oltre le tue labbra.

 

Per furore di vita mi includo nei pluriversi,

dove fervore di carbonio prelude

alle forme espanse:

brulichio e disordine

come l’amore ardente,

nel tempo Uno del fuoco.

 

Solo residui di combustione mi giungono:

spossata la luce che pensa il settembre,

trapela il lungo viaggio,

un lembo soltanto, per prodigio,

tra le stelle scese sul viso

 

e sento la memoria dell’universo

che s’arrugiada di pioggia astrale.

 

Averti amato si iscrive nel caso necessario,

un ammasso siderale

addensato nel fuoco dell’Istante.

 

Poco importa il tempo

precipitato oltre

il fiammeggiare delle passioni.

 

Il mento sulla mano,

nell’ora del sole ancora concessa,

busso alla chimica del cosmo,

cerco luce di intelligenza astrale.

 

 

 

-II-

 

Vedo allora, con occhi senza pupille,

verdeggiare il prato sommerso,

la lente del mistero a brillare

semi di reazione cosmica.

 

Amore di clorofilla,

ambra cronomilionaria

 

che conservi fiori, piccoli volanti

e i sogni verdi del principio,

prigione e scrigno del mondo primo;

 

per me non ho astuccio d’ambra

che conservi le parole in teca trasparente,

i cristalli diamantini di un antico palpito,

 

il vuoto senza oro fascia

la mia infinita canzone.

 

-III-

 

Perdura tuttavia, oltre l’inerzia del nulla,

lo sguardo arrovesciato in vertigine di arché,

l’Inizio astrale dell’AMORE,

 

se ovunque fu sguardo di due,

occhi e molecole a specchio,

lo stesso palpito, uomo e materia.

 

Muove di segreta danza

imprevedibile incontro di enzimi,

selezione per errori

tra protocellule vaganti e battagliere.

 

Lo stesso mistero dell’umano sentire

più oscuro degli zuccheri primordiali,

a combattere la dura distanza del disamore,

 

quanto denso ghiaccio interstellare.

 

Resiste eppure il pronunciarti

in questa tempesta,

tra cadute di elettroni

o mulinelli di ioni metallici,

 

resiste la poesia delle ultime sillabe,

specchi di pietas il divenire del mondo,

per noi, post-sapiens,

per me, senza raggi di nominabile,

affidarsi a molecole agglutinate di suoni,

danza alchemica nostra,

 

dall’alba prebiotica

 

all’oltreparola inabissata.