Mi piaceva contare le stelle.
Disteso sul prato, davanti alla casa che i miei prendevano in affitto al mare ogni estate, la testa all’insù, gli occhi fissi sulla volta del cielo, mi smarrivo nello scintillio di quei corpuscoli nel tentativo di fissarli in un numero. Ignoravo l’astronomia. Non sapevo nulla di Orse, Cani, Cigni; erano soltanto animali, per me, niente di più. Il mio era uno stupore ingenuo, di chi osserva un mistero per il gusto di farlo. Una forma d’ipnosi, o di fascinazione. Non mi interessava conoscere, volevo soltanto guardare e contare. Mio fratello prima di addormentarsi contava le pecore, io le stelle. L’indomani mia madre mi trovava così, addormentato sull’erba fresca di rugiada.
«Ti prenderai un malanno un giorno o l’altro, benedetto ragazzo! Si può sapere cosa ti passa per la testa?».
La prima volta che se ne accorse mi credette morto, incominciò a correre verso di me urlando il mio nome come un’invasata. Col tempo ci fece l’abitudine, anche se non comprese mai perché preferissi il prato al letto. Con premura di madre cercò di agevolare il mio bivacco estivo, fornendomi un sacco a pelo che mi evitasse il congelamento nelle notti più fresche.
«Quando ti stancherai di passare le notti all’agghiaccio?» mi chiedeva.
Non le rispondevo. Ci sono cose di cui i figli non parlano con le madri e contare le stelle era una di queste.
Mo padre era un tipo burbero. Non ci piacevamo, e non facevamo nulla per nascondercelo. Le nostre conversazioni avevano la concisione del codice Morse: tre, quattro parole biascicate a stento e poi ognuno alla propria vita. Per lui ero un’anomalia, il figlio strano piombato per sbaglio chissà da quale galassia per gettare scompiglio nella quiete in cui si rinchiudeva come in un bunker. Si tenne sempre a distanza di sicurezza, limitandosi a osservarmi da lontano.
Scoprì delle mie trasgressioni notturne una sera che rincasò più tardi del solito, o meglio ci inciampò dentro.
«Mio Dio!» esclamò massaggiandosi la caviglia. «Che modo di dormire è questo? Avrei potuto rompermi una gamba!».
«Non nominare il nome di Dio invano» gli risposi io. «Suor Angelica dice che dobbiamo ubbidire ai comandamenti».
Avevo tredici anni, e a Dio ci credevo. Dovevo pur collocare da qualche parte l’artefice della bellezza che mi spingeva a passare le notti sul prato, e il cielo era una dimora perfetta. Mio padre mi intimò di rientrare a casa, subito, che per fortuna vivevamo nel ventesimo secolo e avevo a portata di mano ogni comodità. Solo un pazzo scapestrato poteva pensare di dormire sul prato!
Non me lo perdonò. Come Cosimo rifiutò il piatto di lumache, anch’io rifiutai di ubbidire a mio padre, quella sera. Non salii sull’albero, rimasi incollato al terreno, e continuai a contare le stelle.
Per molto tempo rimasi da solo. Mio fratello non voleva saperne di dormire sul prato; non mi scagliò anatemi, ma scelse comunque di abbandonarmi al mio destino. In fondo, disse, non facevo male a nessuno, tranne che a me. Tornava a casa così stanco e brillo che l’ultima cosa a cui pensava era di assecondare le mie fisse, né
io glielo chiesi. Mi piaceva l’idea di una passione tutta mia, mi faceva sentire grande, grande abbastanza da decidere dove dormire senza che nessuno mi obbligasse a fare diversamente. Ci rimasi molte notti fuori, al chiaro di luna. Non chiesi a nessuno dei miei amici di unirsi a me. La condivisione dell’esperienza ne avrebbe alterato il fascino, quasi che altri occhi avessero il potere di offuscare quella magia, di dissolverla.
Fu mio zio a farmi cambiare idea.
Di lui, in casa, i miei sussurravano di tanto in tanto come cospiratori. Non pronunciavano il suo nome: mio padre lo chiamava quello, per mia madre era semplicemente mio fratello, l’unico che avesse, anche se, a quanto pareva, avrebbe preferito essere figlia unica. Disconoscevo il motivo della ruggine fra loro, lui viveva lontano, non veniva a trovarci né telefonava, e noi facevamo altrettanto. Lo avevo visto una volta sola, al funerale del nonno, qualche anno prima. Ne avevo un ricordo vago, confuso dal nero degli abiti da lutto e dalla pioggia battente di quel giorno di novembre: un giovane alto dal profilo greco, piuttosto robusto, i capelli brizzolati a dispetto dell’età.
Piombò da noi così, da un giorno all’altro, senza avvisare. Ho ancora impressa nella mente la faccia di mia madre quando aprì la porta e se lo trovò davanti, pallida come fosse tornato dall’altro mondo. Era più magro di come lo ricordavo, e aveva tutti i capelli bianchi, lo stesso bianco dei miei di oggi. In famiglia, dal ramo materno, incanutiamo precocemente. I capelli bianchi sono più forti, dice il mio medico. Forse ha ragione: nonostante non sia più un ragazzino, la mia chioma è ancora fitta come un campo di grano prima della mietitura.
I miei accolsero lo zio con impassibilità: non ammazzarono il vitello grasso né gli sbatterono la porta in faccia. Non saprei spiegare perché scelsero la quiete della non belligeranza laddove mi sarei aspettato litigi, recriminazioni, insulti. Invece per tutto il tempo che lo zio rimase con noi la pace germinò nella nostra casa: mio fratello continuò a uscire con le ragazze, mia madre continuò a lamentarsi, mio padre continuò a ignorarmi, ma perfino lui mi sembrò meno burbero, le sere che ci riunivamo sotto il portico e i due parlavano del lavoro, della crisi petrolifera, del rincaro dei prezzi, del terrorismo, e di tutte le altre piaghe che affliggevano il Paese in quegli anni.
Zio Leo entrò nel mio mondo in punta di piedi, senza chiedermi il permesso, e finì col prendersi tutto lo spazio attorno a me.
Una notte si avvicinò, si sdraiò sull’erba e mi svelò le stelle.
«La vedi quella specie di croce al centro che sembra prendere il volo? È la costellazione del Cigno, stasera è visibile in tutta la sua bellezza. Osserva con attenzione le stelle che scendono in verticale verso il basso a formare il collo: l’ultima è Albireo, al telescopio ne puoi vedere il colore che vira dal giallo al verde. Sopra, quella luce più forte delle altre è Vega, una delle stelle più luminose del cielo. Sulla destra c’è Aquila, la regina dei cieli: più che un’aquila, se guardi bene, sembra un aquilone. Quella lì in basso, invece, è Cassiopea: non puoi confonderla con nessun’altra, si riconosce per l’aspetto a zigzag».
E continuò a perlustrare con le parole l’intera volta celeste sopra di noi, indicandomi ogni stella con il dito. Io l’ascoltai in silenzio, come si ascolta un sermone, o un oracolo, non volevo infrangere la sacralità del rito iniziatico di cui ero protagonista. Tutti i nomi che mio zio elencava li avevo avuti sempre davanti agli occhi, senza saperlo. Man mano che si palesavano attraverso la sua voce mi diventavano familiari, come le lettere dell’alfabeto, i numeri, le preghiere che suor Angelica ci faceva recitare a scuola ogni mattina. Il caos delle luci sopra di me acquisiva un ordine preciso, visibile, immutabile, di eterna armonia.
«Dove hai imparato tutte queste cose?» gli chiesi alla fine.
«Me le insegnò tuo nonno. Lui agli uomini ha sempre preferito le stelle».
Dal ramo materno non ho ereditato solo i capelli bianchi. L’ho capito quell’estate con mio zio, le molte ore che trascorremmo insieme a guardare il cielo. Avevo trovato un compagno, uno che non mi giudicava, che non mi considerava né folle né scriteriato né autolesionista, che amava le stelle quanto le amavo io.
Quando partì mi sentii orfano: un pezzo di me se ne andò con lui, e forse con lui è rimasto ancor oggi.
«Amo troppo la libertà per incatenarmi a un luogo» mi aveva confessato durante una delle nostre conversazioni sul prato. «Sono come il Cigno, sempre pronto a prendere il volo dispiegando le ali».
Non l’ho rivisto più da allora. Nel corso degli anni mi ha scritto alcune lettere e qualche cartolina; non ha mai telefonato, né inviato messaggi o email dopo la rivoluzione di internet. L’ho contattato io di recente attraverso l’ultimo recapito che aveva lasciato a mia madre. Ha scelto il Cile per incatenarsi, alla fine l’età lo ha costretto a farlo.
Spero di incontrarlo: volerò con mia moglie in Cile il prossimo mese. Il mio sarà un volo diverso; io, al contrario di zio Leo, le ali non le ho mai avute. Andiamo lì a prendere il nostro bambino, dopo anni di lista di attesa per l’adozione. L’università mi ha concesso un periodo di aspettativa, i miei alunni dovranno fare a meno di me per un po’.
Il lavoro mi mancherà. Mi mancherà alzarmi presto al mattino per correre in sede, mi mancherà il caffè al bar e il pranzo in mensa con i colleghi, i ritmi serrati delle lezioni, gli esami a fine semestre, le sessioni di laurea con le pile di tesi da correggere ammonticchiate sulla scrivania.
Ma soprattutto mi mancheranno le mie matricole. E quell’attimo di stupore infinito sui loro volti quando per la prima volta con il telescopio puntano le stelle.