Era il mese di marzo del 1971 quando io, neolaureato in Ingegneria Nucleare, fui assunto all’E.N.I. di San Donato Milanese come Programmatore Junior. Lavorare a Milano, in una grande azienda come l’E.N.I., era all’epoca il massimo cui potesse aspirare un giovane ingegnere, per di più meridionale, e quindi, una volta sceso dalla “Freccia del Sud” nella Stazione Centrale e uscito in Piazza della Repubblica, mi resi conto subito che la vita mi stava offrendo una possibilità fantastica di ampliare le mie esperienze e le mie conoscenze.
I primi mesi di lavoro furono mesi di studio e di approfondimento sui Calcolatori Elettronici e sulla nuova scienza che stava nascendo in quegli anni, definita “Informatica” dall’acronimo di Informazione Automatica: a San Donato Milanese l’E.N.I. aveva due IBM 370, forse i più potenti calcolatori tra quelli installati allora in Italia, e per cinque giorni, dal lunedì al venerdì, insieme ad altri giovani come me, ne studiavo la logica e la tecnologia. Fu allora che imparai a programmare in ASSEMBLER, il linguaggio macchina vero e proprio, con il quale si poteva entrare nel cuore del sistema, e in COBOL, il linguaggio orientato alle applicazioni commerciali e gestionali che erano di fondamentale importanza per la vita stessa dell’E.N.I. Per cinque giorni vivevo in un mondo fatto di Zeri e Uni, di linguaggio esadecimale, di files sequenziali, indexed e random, di memorie RAM e ROM, di diagrammi a blocchi, ma il sabato potevo andare alla scoperta di Milano e fu così che scoprii il Teatro alla Scala, la Galleria, la Pinacoteca di Brera, i Navigli, il Cenacolo, il Castello Sforzesco, il Museo Civico di Storia Naturale situato nei Giardini Pubblici di Porta Venezia, là dove trovai anche il Civico Planetario Ulrico Hoepli.
Avevo letto qualcosa sui Planetari, ma una cosa è leggerne, un’altra è trovarcisi dentro. Ricordo ancora la prima volta che entrai nel Planetario per assistere a una conferenza: al centro della grande cupola c’era l’imponente struttura dello strumento di proiezione e tutto intorno un gran numero di poltroncine girevoli. Una volta seduto, in attesa che iniziasse la conferenza, mi guardavo intorno e notai una serie di sagome intagliate su tutto il bordo della cupola stessa, sagome di cui non compresi subito il significato. Fu solo quando le luci iniziarono ad abbassarsi, lasciando solo un vago chiarore simile al crepuscolo, che scoprii in quelle sagome il profilo del Duomo, della Torre Velasca, del Castello Sforzesco e di vari edifici di Milano, ma non della città contemporanea, ma della città che aveva assistito alla nascita del Planetario, nel 1930: sembrava quasi che lì dentro il tempo si fosse fermato in una atmosfera calma e serena.
Quando tutte le luci furono spente, la cupola sopra di me si illuminò di mille stelle creando la sensazione, piena di suggestione e di fascino, di trovarsi realmente all’aperto sotto un cielo incredibilmente stellato, poi il relatore iniziò a mostrare la griglia delle coordinate azimutali, di quelle equatoriali, a disegnare le linee delle costellazioni, a variare la posizione delle stelle nel tempo, a mostrare la posizione del sole e della luna, e le sue parole mi riempivano non solo di nuove conoscenze, ma anche di profonde emozioni.
L’Universo intero si apriva ai miei occhi: le stelle non erano più lontane scintille nel buio della notte, ma prendevano forma e realtà che non avevo mai immaginato. Già conoscerne il nome e saperle ritrovare nel profondo del cielo era qualcosa che travalicava il tempo e lo spazio, come se si fosse creato un “fil rouge” tra me e i grandi ricercatori ed astronomi del passato, di qualunque popolo e nazionalità, arabi, indiani, cinesi, greci, egiziani, europei…
Fu così che scoprii che Antares, il “Rivale di Marte”, per gli Egiziani era la dèa Selket, Aldebaran era il “Rosso occhio del Toro”, le “Sette figlie di Atlante”, le Pleiadi, erano già note a Saffo ed Esiodo, Fomalhaut era “la Bocca del Pesce”, Deneb era “la Coda del Cigno”, e che Altair, “l’Aquila”, addirittura era già stata raffigurata insieme alle altre stelle della medesima costellazione, in una pietra trovata nella valle dell’Eufrate, risalente a circa il 1200 a.C.
Fu il Planetario di Milano che mi fece conoscere la leggenda che gli Arabi avevano immaginato per giustificare la singolarità della Stella Polare che la isola nel cielo mentre tutte le altre stelle sembrano ruotarle intorno. L’Orsa Minore per gli astronomi arabi era il “Piccolo Sarcofago” nel quale fu rinchiuso Al-Ruccabah (la Stella Polare), il peggior furfante del cielo: egli infatti aveva tradito e ucciso vigliaccamente il guerriero che riposa nel “Grande Sarcofago” (per noi l’Orsa Maggiore) e per questo, come punizione, deve restare sempre da solo, immobile nel punto più alto dei freddi e ostili cieli settentrionali, lontano dalle altre stelle che, inorridite, gli girano sempre intorno e si mantengono a distanza.
Il Planetario mi fece riscoprire anche le affascinanti storie della mitologia greca legate alle costellazioni: da Ercole, che gli dèi vollero porre nei cieli per le sue grandi doti di forza e coraggio, alla saga di Andromeda, figlia di Cefeo e Cassiopea, che Perseo liberò dal suo tragico destino, ma in particolare mi piace ancora ricordare una romantica leggenda legata all’amore della dèa Diana per Orione, il grande cacciatore.
Giunto dopo innumerevoli peripezie nell’isola di Creta, Orione divenne assiduo compagno delle battute di caccia di Diana, la dèa cacciatrice che, alla fine, si innamorò di lui Ma Apollo non poteva accettare che sua sorella, una dèa, potesse amare un mortale e così, una mattina, quando incontrò Diana sulla riva del mare, la sfidò a colpire un bersaglio che si muoveva lontano tra le onde. Diana accettò la sfida del fratello, incoccò la freccia e tese l’arco: la freccia d’argento saettò via sibilando, diritta, balenante nel sole e, inesorabilmente, colpì il bersaglio. Ma quel bersaglio, che le onde sospinsero a riva, era il corpo ormai inerte di Orione trafitto dalla mortale freccia d’argento della dèa. Sirio, il fedele cane di Orione, ululava accanto al corpo del suo padrone, mentre Diana si abbandonava alle lacrime. Giove, allora, ebbe pietà di quel pianto e accolse Orione e Sirio in cielo tra le splendenti costellazioni e da allora, quando Diana si sente triste nella notte, alza gli occhi al cielo e può vedere il suo bel cacciatore Orione che va a caccia di favolose fiere mentre il fedele Sirio lo segue attraverso i campi turchini fioriti di stelle.
Cinquant’anni, sono passati cinquant’anni da allora, la vita mi ha spostato altrove, ma quando qualche volta mi capita di alzare lo sguardo al cielo stellato, riaffiorano ancora i ricordi di quei pomeriggi di sabato quando il mondo esterno, con tutti i suoi problemi, restava fuori dal Planetario di Milano, quel posto incantato senza tempo sospeso tra cielo e terra, che mi ha fatto intravedere quanto grande e meraviglioso sia l’Universo.