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Gianfranco Antuono - Roccaromana (Ce)

Mio fratello, più grande di me, aveva appena completato la sua prima enciclopedia a fascicoli settimanali ed io, tredicenne innamorato della geografia, non vedevo l’ora che arrivasse per posta anche il regalo previsto a raccolta ultimata: un gigantesco atlante geografico. Averlo tra le mani, dopo anni di attesa, mi procurò un’emozione indescrivibile anche perché nel frattempo mio fratello era andato via di casa per lavoro e quel prezioso volume sarebbe rimasto a mia disposizione per molto tempo.

Più che un semplice atlante era una vera e propria enciclopedia geografica illustrata e potei ripassare e arricchire quanto già avevo appreso alle elementari e medie e sfamare ogni altra mia curiosità sul nostro pianeta e sui suoi più complicati abitanti, noi esseri umani. Dopo mesi e mesi di accanimento su cartine, mappe, statistiche, schede, grafici, bandiere, mi trovai davanti una grossa sorpresa blu: due paginoni con le mappe del cielo stellato visibile dai due emisferi. E poi tante altre pagine con immagini e informazioni su sole, luna, pianeti, asteroidi, comete e tantissimi altri corpi celesti di cui non avevo neanche sentito parlare. 

Fu il mio primo vero impatto con l’astronomia. Fino ad allora non avevo osato guardare il sole perché mamma mi aveva avvertito che avrei rischiato di rimanere cieco; avevo contemplato la luna immaginandola per tutta l’infanzia come un simpatico folletto che con le sue strane trasformazioni e chissà quali magie da lontano influenzava i nostri lavori agricoli; avevo imparato a riconoscere di notte “la stella Diana”, quando c’era, e d’inverno il gruppetto di minuscole stelline dette “gallinelle” e “i tre pastori”, perché mamma solo quelle stelle conosceva, a sua volta per averlo sentito dire. Mamma però era analfabeta. Lei stessa mi diceva di non fidarmi del tutto di ciò che mi spiegava. Mio padre ne sapeva certamente di più ma tra noi non c’era praticamente alcun dialogo. Ricordavo benissimo quando, anni prima, lui andò in paese per assistere in televisione allo sbarco dell’uomo sulla luna, dato che da noi non c’era ancora la corrente elettrica; non è che ne capissi molto, ma avrei dato chissà cosa per vedere anch’io quell’evento. Da allora quella povera luna mi era diventata persino un po’ antipatica!

Quante notti trascorse con il librone aperto sopra un telo steso sull’erba, in mezzo a un’ampia radura, torcia alla mano con le pile da risparmiare, a confrontare il cielo stellato sopra di me con quello disegnato sulle mappe! Mi mancavano tante cose, ma per fortuna non la libertà di spendere il mio tempo libero come volevo. E volevo usarlo soltanto per imparare e riconoscere costellazioni, stelle e tutto ciò che la volta celeste mi aveva sempre esposto inutilmente. Mamma non capiva tutto quell’interesse ma dopo una sola chiamata per la cena, quasi sempre mi portava lì sul prato qualcosa da mangiare. Qualche volta si fermava incuriosita a guardare il cielo insieme a me.

«Vedi quelle, ma’?»

«Sì, sono le “gallinelle”»

«Beh, in realtà si chiamano Pleiadi; fanno parte della costellazione del Toro. Vedi la forma? Se immagini una linea che unisce quel gruppo di stelle più grandi, sembra proprio la testa di un toro, con quelle due stelle più distanti, sopra la testa, che rappresentano le punte delle corna…»

«Ah, un po’ sì… è vero. Quella stella più lucente è come un occhio, allora».

«Proprio così. È Aldebaran. Sai, tutte le stelle più grandi hanno un nome. Una si chiama addirittura Arturo!»

«Che nome! Ah, ecco là pure i tre pastori. Anche loro hanno un nome?»

«Certo, ma sono nomi complicati perché glieli hanno dati popoli del passato che parlavano altre lingue. Anche quelle tre stelle fanno parte di una composizione più grande, che si chiama Orione e rappresenta la figura di un cacciatore, e le tre stelle formano la sua cintura».

«No, non ce lo vedo un cacciatore. Mi sembra più una farfalla di quelle che si mettono al posto della cravatta, con quelle tre stelle che formano il nodo».

«Sai che ti dico, ma’? Hai proprio ragione, anche a me sembra una farfalla».

All’emozione per le mie scoperte, quindi, si aggiungeva talvolta quella per le “lezioni” che davo a mamma. Rimaneva perplessa davanti allo scricchiolare delle sue convinzioni, ma sotto sotto era contenta di essere smentita dalle mie osservazioni da vero “studioso”, come mi considerava lei.

Da “grande” mi arruolai nei Carabinieri e i miei hobby, astronomia compresa, dovettero farsi da parte e ci rimasero per un bel po’. Poi, un giorno, mentre passeggiavo per il centro di Firenze, passando davanti ad un negozio di articoli per la fotografia fui letteralmente rapito da un oggetto in vetrina: un piccolo telescopio riflettore da undici centimetri di lente e un metro di lunghezza focale, compatto, accessoriato, bellissimo e troppo costoso per il mio stipendio. Ma non resistetti ed entrai nel negozio, almeno per guardare. Ci rimasi due ore e non ne uscii a mani vuote. Comprai un binocolo 20x50 e da quel momento iniziai ad aspettare con ansia i riposi settimanali e le licenze. Il mio servizio aveva iniziato a lasciarmi del tempo libero e sapevo già quale dei miei hobby avrebbe ripreso “vita” per primo: l’astrofilo che dormiva in me si era risvegliato!

Non era facile trovare luoghi idonei per riprendere confidenza con il cielo stellato, perché ovunque c’era troppa luce. Ma quando potei trascorrere finalmente una lunga vacanza a casa riassaporai vecchie emozioni tornate come nuove: una cosa è stringere le ciglia e decentrare lo sguardo per cogliere il piccolo e vago alone lattiginoso di Andromeda, ben altra cosa è puntare il binocolo verso Perseo e, dopo un po’ di paziente e faticosa ricerca, essere premiati dalla visione della famosa galassia che riempie l’intero campo visivo delle lenti! E poi la nebulosa di Orione, ancora le Pleiadi, i crateri lunari, la “mezzaluna” di Venere, i satelliti di Giove, gli anelli di Saturno… Una cosa è sapere, immaginare, leggere; un’altra è vedere ciò che sai, che hai immaginato, che hai letto.

Le vicende della vita sono a volte strane e una di quelle più strane mi fece ritornare a Firenze e ripassare casualmente davanti al negozio di qualche anno prima. Il telescopio era ancora lì in vetrina e di nuovo rapì la mia attenzione. Entrai di nuovo col solo intento di guardare e di nuovo ci trascorsi due ore. Di nuovo, non ne uscii a mani vuote.

Appena fu possibile tornai a casa in licenza con il mio gioiello e con ansia aspettai che il cielo si rasserenasse dopo tre giorni di pioggia e vento. Sembrava una disdetta, invece tre giorni di pioggia e vento puliscono il cielo meglio di un potente aspirapolvere e in quella prima notte di sereno il cielo di casa mia fu limpido come mai lo avevo visto. C’era uno spicchio di luna crescente e decisi che sarebbe stato lui ad inaugurare il mio prezioso riflettore compatto, dopo gli sarebbero toccati Giove e Saturno, che erano già in fila più a est. Mi elettrizzava l’idea di poter passare dai venti ingrandimenti del binocolo ai duecento del telescopio. Pregustavo già le sensazioni. Cenai di fretta e dissi a mamma: «L’ho montato, non è come il binocolo; una volta piazzato, lì dentro puoi guardare anche tu. Andiamo, ti faccio rivedere le stelle, i pianeti e la luna come non li hai mai visti. Uno spettacolo che non posso spiegarti, devi vederlo tu».

Era scettica, ma il ricordo vecchio di anni delle nostre prime osservazioni e il mio entusiasmo esagerato la convinsero.

Sparecchiammo insieme la tavola, poi si tolse il grembiule, diede le pillole a mio padre e quindi uscimmo a riveder le stelle.