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Morena Festi - San Matteo Decima (BO)




Facevo parte della spedizione!

Quando si dice: toccare il cielo con un dito...

C'ero finita per caso, il caso e l'amore per le stelle.

L'ho osservato da sempre il cielo.

Da prima con gli occhi della fantasia; naso in sù a consumare le notti in attesa di un segnale.

La sua vastità era certezza dell'esistenza di altra vita intelligente nello spazio. Aspettavo...

Poi ho conosciuto loro, gli astrofili.

Un gruppo eterogeneo che andava dai ragazzini ai quasi centenari. C'era di tutto dentro: studenti,  artigiani, impiegati, operai, informatici, professori, fotografi, astronomi, fisici, astrofisici, geologi, tutti uniti da un profondo amore per quello che stava lassù.

Gli “anziani”, i fondatori dell'associazione, erano gli stessi che avevano creato l'osservatorio.

Per creato non intendo solo il progetto.

Ruspe per spianare il terreno, carriola e badile per fare il cemento, stampi per costruire la cupola, fabbri e saldatori per mettere assieme i pezzi. Stessa cosa per realizzare il planetario negli anni successivi. Qualche finanziamento, spesso di tasca propria, e tanto, tanto volontariato.

Io sono arrivata quando tutto questo esisteva già.

Si passavano le ore a scrutare il cielo cambiando gli obiettivi del telescopio per ingrandire uno spicchio di Luna al terminatore, contare gli anelli di Saturno, guardare la macchia di Giove o un ammasso, perso nella costellazione dello Scorpione.

La Polare e il Grande Carro, le mie prime conoscenze infantili, erano diventati quasi amici scontati. Attorno vi ruotava l'infinito col certo e l'incerto, col possibile e l'impossibile che avrebbe potuto diventare possibile.

Sono stati loro, quelli del GAPERS, che mi hanno insegnato che per conoscere veramente il cielo “bisogna tenere gli occhi bassi”.

Assurdo? No!

Tutti i “pezzi di cielo”, tutte le meteoriti conservate dentro il museo erano state trovate guardando a terra.

Avete mai tenuto tra le mani la Luna o Marte? Accarezzato un frammento di asteroide o una briciola di cometa? Toccato roccia più antica ancora del nostro sistema solare?

Brivido puro!

Altro che alieni, viaggi nel tempo e tutto il resto.

Scoprire il misterioso mondo dei meteoriti è stato più fantascientifico della fantascienza stessa.

Anonimi “sassolini” neri con racchiuso dentro il mistero della creazione e il viaggio quasi infinito per arrivare a noi.

Il loro contatto fisico è stato un altro modo di sognare.

Scoprire che la conoscenza umana, dallo studio di poche schegge, era in grado di stabilire da dove potessero venire, quanti milioni di anni avessero, come fossero mutati nel coso del loro esistere, era quasi inconcepibile per la mia mente.

Alla fine non so se ero più affascinata dal telescopio o dalla storia di ogni meteorite.

Certo che, quando mi fu proposto di partecipare ad una delle loro spedizioni, non me la lasciai sfuggire.

Ormai sapevo tutto dei loro viaggi nel deserto, dei ritrovamenti del Wainat, delle immense distese di sabbia chiara e delle pietre nere, che spiccavano anche di lontano come le ciliegie rosse sulla torta alla panna.

Noi saremmo andati in Spagna. 

La Spagna non era deserto e non avevo idea di come ci, o meglio, si sarebbero mossi nelle ricerche.

Data la mia ignoranza io avrei potuto essere solo un'osservatrice.

Scopo della missione era lo studio di antichi crateri da impatto. Effettivamente quasi impossibile trovare resti di meteoriti, ma non era detto.

Quando partimmo per il primo sopralluogo, le auto incolonnate, il navigatore puntato, le coordinate inserite, assolutamente non sapevo dove saremmo andati.

Strade deserte, campi di grano ormai ridotti a secche stoppie aride o zolle rivoltate, terreni lievemente ondulati e niente attorno, fu quello che percorremmo e vedemmo per ore e ore.

Poi, ci fermammo.

No, non potevo crederci!

Cominciarono a gironzolare per i campi ai lati della strada.

Raccoglievano pezzi di roccia affioranti, se li rigiravano fra le mani, si consultavano e li ributtavano a terra.

Se non fosse stato per la serietà delle persone con cui mi trovavo, li avrei presi per pazzi.

Eravamo dentro al cratere e stavano cercando in quei frammenti di roccia le caratteristiche morfologiche di un impatto meteoritico.

Che eravamo dentro, lo dicevano loro!

Io vedevo solo un'immensa pianura sassosa di terreno arato, e, molto lontano, all'orizzonte, basse e sfumate alture brulle.

Quando un meteorite di grosse dimensioni impatta, la terra si comporta come l'acqua dentro cui si getta un sasso. Il sasso affonda e l'acqua fa le onde. 

Questo lo sapevo.

Quelle alture quindi altro non erano che i resti di una delle onde al momento dell'impatto.

Alla parola cratere, nella mia mente, si era formata l'immagine di una grande depressione ampia e profonda, ma non certo vasta decine e decine di chilometri.

Continuavo a crederci solo perché erano loro a dirlo.

Riprendemmo il viaggio per arrivarne esattamente al centro.

Alla buca, penserete.

Niente di più sbagliato... Il centro era un rilievo su cui si ergeva il minuscolo e pittoresco paesino di Rubielos de la Cerida.

Il sommovimento della terra impattata aveva fatto sì che, di rimbalzo, si fosse sollevata, nuovamente ad imitazione dell'acqua.

Non chiedetemi che fine potesse avere fatto il meteorite, sicuramente di notevoli dimensioni. Fuso, sbriciolato, schizzato via, sparso per chilometri?

Non c'era tempo per le domande ed ancor meno per le risposte.

Era tutto troppo, troppo emozionante.

Nei giorni a venire imparai ad imitare gli altri.

Quando ci fermavamo andavo in cerca di rocce, sassi e fantomatiche briciole di meteorite.

Come loro, raccoglievo, osservavo, rigiravo e ributtavo.

I miei compagni sapevano quello che facevano, io, no.

Posso assicurarvi che ogni sasso assomigliava all'altro.

L'unico aiuto che potevo avere era la calamita che mi portavo in tasca.

Mi basavo su questa scelta: se non attaccava, era da buttare. In caso contrario, poteva esserci una remota, remotissima possibilità che si trattasse di meteorite.

Più che altro contavo sulla fortuna, considerandomi tuttavia già fortunata di essere lì.

Una cosa comunque l'avevo capita: era durante lo sbancamento per costruire strade che potevano essere stati riportati in superficie frammenti di meteorite.

Lo stesso valeva per i lavori di aratura dei campi o di qualsiasi altro scavo.

E pensare che nella mia mente avevo ipotizzato faticose scalate su montagne impervie tra sterpaglie aggrovigliate.

Tornai anch'io da quel viaggio con le mie “impattiti” e le mie “brecce”, non frutto del mio lavoro, ma di quello degli altri.