Il vento focoso di luglio aveva lustrato la notte.
Stavi lì, seduta al mio fianco,
lemure dagli occhi infiniti,
baco sfibrato nel bozzolo della tua felpa grigia.
Confusa, chiedevi a me di ogni stella:
di Sirio, presunta dimora divina,
dell’ovvia figura dell’Orsa maggiore
e gli oscuri disegni del Cigno e del Cane.
Col naso pigiato al mio telescopio
ti sorprese quella scia opalescente: la Chioma di Berenice.
E uno strappo di labbra ti colorò il viso,
un triste sorriso,
un gesto stizzoso ed in mano stringevi la rossa bandana.
Urlavi il chiarore di un cranio tosato dal male,
accusando poi il cosmo di furto.
Un lembo crescente di cielo si accese
dentro i seni bruniti di molli colline.
E il ricordo sfiorava e baciava il turgore e il tepore dei tuoi.
Ti presi le dita tremanti, come fredde candele di marmo
e puntammo quell’astro lucente che turbava l’arrivo dell’alba.
Venere stella non era ma abbaglio farlocco,
favore del sole nascosto e ruffiano.
Tu, stella verace, ardevi del tuo solo fuoco,
brulicavi testarda di forza e d’amore
facendo spallucce alla morte incipiente.
Io c’ero
Quando l’essenza tua si librò con un soffio
dai resti di quel manichino; carcassa imbrigliata nel letto
dal rovo di tubi di gomma.
L’eco di un battito d’ali ti uscì dalla bocca
sciamando leggero verso il tuo paradiso.
E noi lillipuziani, affogati e smarriti nel mare assoluto
del tuo breve ricordo.
Ora gli astri frequenti e conosci,
Berenice stanotte mi appare abbagliante;
la chioma sinuosa è adornata